E l’eco rispose di Khaled Hosseini è la storia di allontanamenti e ricongiungimenti fra destini che si incrociano nell’arco di cinquant’anni.
E l’eco rispose, l’atteso nuovo romanzo di Khaled Hosseini, edito da Piemme e pubblicato in contemporanea mondiale dal 21 giugno, ha subito raggiunto il primo posto nella classifica dei libri più venduti.
Dopo aver fatto emozionare e appassionare i lettori di tutto il mondo alle storie della sua terra di origine, l’autore torna a raccontare le vicissitudini di una famiglia afghana, questa volta partendo dal legame di due giovani fratelli che coinvolgeranno tutta una serie di personaggi secondari nell’arco di diversi decenni e in giro per il mondo, da Kabul a Parigi, da San Francisco all’isola greca di Tinos. Sì perché famiglia non è solo vincolo di sangue, sembra volerci dire infatti l’autore, ma anche affetti profondi che si instaurano fra individui che il destino sceglie di far incontrare, stabilendo legami speciali e indelebili nel tempo.
La narrazione si apre con lo sguardo su un padre chinato a congedare i suoi due figli, i fratelli Abdullah di dieci anni e Pari di tre, prima del riposo notturno. Su loro insistenza il papà concede un’ultima storia, “Ma una sola” dice loro, quella di un div feroce che rapisce i figli delle famiglie del povero villaggio lasciando al capo famiglia la dura scelta. Uno di questi, straziato dal dolore, intraprende un viaggio pieno di difficoltà per cercare di liberare il suo bambino e quando lo trova e scopre che questi è felice, decide di lasciarlo nel giardino incantato del div, il quale mosso da compassione regala all’uomo una pozione che ha lo scopo di liberarlo dal ricordo.
Tuttavia, nonostante una volta rientrato al villaggio il suo animo avesse trovato pace, a volte udiva un rumore che gli ricordava il tintinnìo della campanella che il suo bambino portava al collo e allora si sentiva
attraversare da una strana sensazione, qualcosa di simile alla coda di un sogno triste. Ma poi passava, come passa ogni cosa. Sì, passava.
La drammatica storia che racchiude il senso del romanzo
Ed è proprio questa drammatica storiella che racchiude in sé il senso dell’intero romanzo: il dolore che si prova nella separazione dalla famiglia, una sofferenza il cui richiamo sarà più forte delle distanze dei luoghi e del tempo. Il racconto riprende infatti con il padre dei due fratelli che parte all’alba diretto verso Kabul trasportando su un carretto traballante la piccola Pari. Abdullah si impunta perché vuole seguirli e il padre cede con rammarico alle sue insistenze.
Cosa nasconde suo padre dietro quel viaggio, si chiederà Abdullah lungo il tragitto, e perché non ha deciso di portare anche lui? Proprio non ce la fa a separarsi dalla sua dolce sorellina, per la quale raccoglie e colleziona in una vecchia scatola da tè di latta piume di uccelli di ogni specie, alla quale non risparmia un’assoluta dedizione in seguito alla morte della loro madre:
Quando Pari era piccolissima, era lui a essere svegliato di notte dai suoi gridolini e borbottii. Lui che al buio la prendeva in braccio facendola saltellare. Lui che le cambiava i pannolini sporchi.
ed è lui che la protegge adesso che il papà si è risposato. Dal loro arrivo a Kabul la trama del romanzo si dipana in un intrico di storie nella storia, in cui le vite dei protagonisti sembrano tanti fili tenuti assieme da un esperto burattinaio che sa come districarli fra loro al momento giusto. Il fiato del lettore sembra, infatti, come viaggiare su una nave che onda dopo onda lo trascina su e giù, spesso meravigliato e allo stesso tempo piacevolmente colpito nel ritrovare personaggi messi momentaneamente da parte o ai quali si era solo accennato all’inizio della narrazione.
La famiglia non è solo quella d’origine
La famiglia dunque non è solo quella di origine, ma è fatta anche di persone che la vita ci regala attraverso una madre o una sorella “acquisita” come accade a Pari con la poetessa Lina o a Markos con la sfortunata Thalia; un padrone che dipende dal suo fedele servo; un amico che diventa lo specchio in cui guardare meglio e scoprire con rammarico il riflesso ambiguo della propria condizione di privilegiato.
Nella fitta narrazione, in cui si alternano lunghi flashback a salti temporali che potrebbero rischiare di stancare il lettore, lo scrittore presenta una serie di figure materne, tutte diverse fra loro e messe a nudo dai loro difetti e dalle loro mancanze, a differenza della mamma scomparsa di Abdullah che nei suoi ricordi il bambino rievoca come “una persona delicata, sia per carattere che per costituzione, una donna minuta, dalla vita sottile”. Troviamo Parwana che nasconde l’ombra di un tragico segreto nei confronti di sua sorella gemella, Lina Wahdati anima ribelle tormentata dai fantasmi interiori che neanche la presenza di una figlia riuscirà a liberare, Madaline alla ricerca di un effimero successo e prigioniera del suo egocentrismo, Odie donna tenace e abile nel mascherare dolore e sentimenti, che imparerà finalmente ad aprirsi alle sue emozioni.
Fra gli altri personaggi secondari, complementari allo svolgimento delle vicende della storia, ci sono anche i due cugini Idris e Timur che rappresentano rispettivamente i due modi differenti di reagire alle condizioni in cui versa il Paese natio dopo il processo di occidentalizzazione. La reazione alle devastazione morale e materiale della città di Kabul causate dalla guerra sono quella di un approccio più empatico e compassionevole per il primo, che però sfocerà presto nell’impotenza e nell’abisso dei sensi di colpa interiori, e quella di un atteggiamento più esuberante che spinge il secondo a rispondere, seppur con mezzi spesso discutibili, al richiamo delle sue origini pur di sentirsi più vicino al dolore della sua terra abbandonata. Idris rientrando dall’Afghanistan dirà a sua moglie definendo la città natìa “Kabul è… Mille tragedie per kilometro quadrato.” E quando lei gli chiede “Deve essere stato uno shock culturale, andare laggiù.” frettolosamente le risponde “Sí.” ma “Non dice che il vero shock culturale l’ha provato tornando. Guardandosi attorno scopre la vacuità di una vita fatta di comodità e di agi futilmente agognati!”. Pensa invece che:
“Con il costo dell’home theatre avremmo potuto costruire una scuola in Afganistan.”
E ancora il dottor Markos, il quale sin da bambino desidera abbandonare i luoghi dove è nato perché li sente troppo stretti per riuscire a contenere le sue ambizioni. Si ritrova perciò a girovagare per il mondo fino a quando scopre la sua missione. Diventerà un chirurgo e dal suo lavoro imparerà “che il mondo non vede la tua anima, che non gliene importa un accidente delle speranze, dei sogni e dei dolori che si nascondo oltre la pelle e le ossa. I suoi pazienti, consapevoli di questa verità,
“capivano che gran parte di ciò che erano dipendeva, o poteva dipendere, dalla simmetria della loro struttura ossea, dallo spazio tra gli occhi, dalla lunghezza del mento, dalla punta del naso, se il naso si univa alla fronte con un angolo ideale o meno”.
Anche le case diventano scenari simbolici delle condizioni in cui versano la città di Kabul e i territori circostanti prima e dopo la guerra con la Russia, un tema che questa volta a differenza dei romanzi precedenti viene solo accennato. La posizione di Hosseini a riguardo sembra essere spiegata nella lunga lettera che il servo Nabi scriverà al dottor Markos per liberarsi dal peso che opprime il suo cuore sulla verità della sorte toccata alla piccola Pari, missiva nella quale si dice che della guerra si sa già tutto. Da una parte troviamo allora la villa Wahdati che dallo splendore e dal fasto che la contraddistingueva durante gli anni ‘50 subirà un lento e triste declino, dall’altra l’immensa costruzione della casa del papà di Adel che sorge sulla vecchia città di Shadbagh da dove parte e torna più volte la narrazione, luogo inventato come lo stesso autore precisa nei ringraziamenti finali del libro, con i suoi tre piani, le numerose stanze, le vaste verande ricoperte di mosaici scintillanti e le pareti esterne dipinte di un rosa squillante, che diventa simbolo della corruzione dei signori della guerra.
Come era accaduto per gli altri romanzi precedenti, Hosseini con la sua penna abile e toccante riesce a descrivere con padronanza ogni personaggio e a parlarci della sua storia avvincendo e commuovendo il lettore, condendo la narrazione con buoni sentimenti che scaldano il cuore come una coperta d’inverno, lasciando una sensazione di piacevole tepore soprattutto quando la storia volge al termine in un finale dolce e amaro allo stesso tempo.
Ancora una volta l’autore ci trascina con sé non solo in una terra che con i suoi usi e racconti ci ha emotivamente coinvolto sin dai suoi primi romanzi, ma in quella delle autentiche emozioni della labile condizione umana, con tutte le sue ambiguità e contraddizioni.
E a questo proposito vorrei concludere la recensione con una frase del romanzo:
“Dicono: trovati uno scopo nella vita e perseguilo. Ma talvolta è solo dopo aver vissuto che si riconosce che la vita aveva uno scopo, e probabilmente uno scopo architettato dal caso.”